venerdì 23 novembre 2007

Vita da Suddito - Avanti Savoia!

Da persona romantica quale sono io, ho sempre vissuto nel passato, e la dinastia dei Savoia ha sempre accompagnato le mie fantasie di bambino disfunzionale. Non avevo bisogno di immaginarmi Zorro per vivere delle avventure bellissime e emozionanti, mi bastava pensare al Piemonte dei secoli passati, quando un piccolo ed aggressivo Ducato a cavallo delle Alpi si ritagliava, a differenza di tutti gli altri inutili staterelli del mondo civilizzato, uno spazio al tavolo con le grandi potenze dell’epoca. Mi vedevo al fianco di Testa di Ferro nella luminosa notte di San Lorenzo, quando tutto stava incominciando e Torino si apprestava a diventare capitale, o mi fingevo corriere diplomatico al servizio del genio del marchese d’Ormea, cavalcando nelle scure notti per portare dispacci importantissimi al mio Duca, e prode ufficiale dei dragoni al servizio del principe Eugenio nelle sue epiche imprese contro i Turchi, da Vienna alle mura di Belgrado.

Sognavo battute di caccia nei boschi di Stupinigi con Vittorio Amedo II, il primo Re, e lunghe conversazioni al Castello del Valentino con Cristina di Francia e con Carlo Alberto, che con il suo coraggio avrebbe portato l’intero stivale ad essere, alfine, un unico e unificato Piemonte.

Certo, se proprio si va per il sottile, anche la dinastia aveva mostrato degli aspetti oscuri, se non tragici: il Re Buono che ordinava di sparare sulla folla, e Bava-Beccaris che eseguiva, o il re nano che consegnava l’Italia nelle mani del fascismo, la scaraventava nella tragedia della seconda guerra mondiale, perseguitava gli ebrei e in sovrappiù ignominiosamente, decideva di fuggire verso Pescara anziché recuperare un po’ di dignità e rimanere a difendere la propria capitale.

La meteora del re di Maggio aveva gettato un po’ di luce, e sembrava che qualche cosa ancora fosse vivo delle grandi glorie famigliari, non fosse altro che per la sua attenzione alle ragioni del Regno e per la consapevolezza che un suo gesto, doloroso come l’accettare l’esilio, avrebbe risparmiato al paese una sicura e sanguinosa guerra civile.

Nonostante tutto ciò, le tare dovute agli incroci fra consanguinei, avevano colpito duramente anche i Savoia. E se in altre casate avevano provocato emofilia, disgrazie fisiche, nanismo, dissolutezza e altri allegri disastri tutto sommato sopportabili, nei Savoia ne avevano prodotto uno sicuramente più grave ed insostenibile: l’idiozia.

Ora, con ogni probabilità il morbo della cretinaggine era già presente in maniera strisciante nella famiglia, e sicuramente in passato più di un rappresentante della Real Casa ne aveva mostrato in maniera eclatante i segni, ma un insieme di concause, tra cui il rispetto formale verso la famiglia del Re, la scarsa efficacia dei mezzi di comunicazione e una sana abitudine a relegare i rampolli deficienti in qualche castello sperduto e a dimenticarsi della loro esistenza, avevano fatto si che il decoro e la decenza non ne fossero mai intaccati.

Purtroppo i tempi sono cambiati, e con essi anche le possibilità di nascondere le magagne dovute alle evidenti mancanze intellettive, tanto che l’ultima generazione si è resa protagonista di una serie di nefandezze da basso impero che Caligola e Nerone ne sarebbero davvero fieri.

C’è l’erede al trono che spara su turisti placidamente stravaccati al sole e ne esce impunito, che maneggia soldi sporchi in compagnia di balordi impresentabili e che si arricchisce vendendo armi in Medio Oriente. Che si fa intercettare al telefono mentre ordina del sesso a pagamento con zoccole di terz’ordine, il tutto usando modi di tale volgarità che nelle tombe reali di Superga ancora si stanno rivoltando come kebab, e si fa sbattere in prigione e poi agli arresti domiciliari ai Parioli, che sono anche peggio delle galere lucane.

C’è la moglie, svizzera per giunta!, dell’erede al trono, ex campionessa di sci nautico (mica merda) ed ex fenomeno da baraccone nei parchi di divertimento della Florida, nota per i suoi lifting mal riusciti, per l’avidità che trasuda da ogni poro e l’inquietante cofana d’acciaio che orna la sua regale testa.

E c’è il principe con la pronuncia blesa che ha sposato un’attricetta affascinante come Stanlio, che tifa juventus (cosa, questa davvero insopportabile…), che minaccia di scendere in politica (fortunatamente dalla parte sbagliata), che sponsorizza marche di abbigliamento burine ed elargisce onorificenze a mafiosi di mezza tacca come gli avi facevano con Cavour e d’Azeglio.

E ora questa allegra combriccola, dopo essersi esposta al pubblico ludibrio, ed aver affossato per sempre ogni residua dignità, ha il coraggio di chiedere la restituzione dei beni che gli sono stati confiscati alla fine della guerra.

Davvero impagabili.

Ora il problema è molto serio, e oltre a urtare il senso comune dello Stato potrebbe anche costare un sacco di soldi a noi poveri contribuenti, che paghiamo le tasse e che non abbiamo voglia di vederle spese in parcelle di avvocati per le richieste di questa specie di corte dei miracoli in salsa svizzera.

L’unica scelta da fare potrebbe essere dolorosa, ma porterebbe sicuramente ad una soluzione rapida: restituiamogli qualcosa. Il Quirinale, ad esempio.

Ridiamoglielo e speriamo che ci vadano ad abitare: è un palazzo enorme, sterminato, e loro sono talmente stupidi che nel giro di poco tempo ci si perderebbero dentro.

E finalmente non ne sentiremmo parlare mai più.

martedì 20 novembre 2007

Vita da Clubber - Il White Party (Terza Parte)

Ogni tanto saluto qualcuno che è entrato tardi a causa della coda, e quindi ha saltato il rituale descritto sopra: questo fino alle 3 perché dopo siamo tutti amici, i perfetti sconosciuti e quelli che mi fanno francamente orrore e con cui in situazioni normali non scambierei neanche una parola in croce, ma anche, e soprattutto, quelli che prima ti fulminavano se li sfioravi incidentalmente e che ora ti si accasciano addosso dicendoti che sei l’uomo più sexy del mondo e che ti amano da sempre, ancora prima di averti mai visto.

Ora c'è gente sudata dappertutto: quelli che sono evidentemente affetti da iperidrosi sono tutti attaccati a me e mi ballano addosso. Penso a tutte le varietà di funghi della pelle che è possibile prendersi strusciandosi contro corpi sudati (e spesso mal lavati) per cui decido di fissare un appuntamento con la mia dermatologa per il lunedì successivo. Mi trattengo per rispetto dal telefonarle subito, d’altronde sono le 4 del mattino e nonostante sia molto carina e disponibile non credo capirebbe la situazione.

Dopo le 4 mi metto a cercare un paio di amici, sperando che la droga non li abbia uccisi o che non siano scappati, sempre causa droga, con individui poco raccomandabili: nonostante l’annebbiamento la mia indole da madre Teresa rimane sempre molto forte. Missione che il più delle volte fallisce: i miei amici sembrano scomparsi nel nulla: una rapida ricognizione nella zona divanetti, che ormai visti i corpi accasciati mi ricordano più la puntata di E.R. dove un aereo si schianta su un popoloso quartiere di Chicago che normali divanetti da discoteca, non sortisce alcun effetto: ne deduco che sia molto probabile trovarli incastrati in bagno perché, presi da un entusiasmo paragonabile a quello che hanno i polacchi in piazza San Pietro, allo scattare del “richiamino” sono entrati in troppi in una sola cabina…

Alle 4,30 bevo qualche cosa perché ho un inizio di blocco renale e non prendo mai bevande da altri. Sono certo che potrei risvegliarmi la mattina dopo incatenato ad un letto con tipacci in maschera di cuoio che sogghignano in maniera sospetta.

Alle 5 le mie gambe mi odiano. Sono questi i momenti in cui ripenso alla mia vita e mi dico che è ora di crescere, e che se mi vedesse mia mamma si vergognerebbe (anzi, si vergognerebbe ancora di più di quello che faccia già normalmente..)

Alle 6, finalmente, la chiusura. Ed improvvisamente capisco il significato del termine “Liberazione” e perché si continui a festeggiare il 25 aprile.

I miei amici magicamente si materializzano di nuovo, ognuno con diverse esperienze da raccontare. Mi avvicino all’uscita, dove saluto gli stessi che ho salutato all'ingresso, solo che ora sono tutti talmente fuori che non ricordano assolutamente più nulla della loro esistenza, figuriamoci di me. In più vengo ripresentato per l’ennesima volta agli stessi cui sono stato presentato ad inizio serata e svariate volte durante essa, che però ora sono o completamenti comatosi o mi salutano come se fossi il loro amato fratello scomparso nella giungla 10 anni prima. Respingo almeno 5 offerte di chill-out differenti (praticamente orge) e almeno altrettanti inviti a casa per un caffè (orge più ristrette), per cui torno a casa stordito, di solito con un paio di cadaveri nel bagagliaio della macchina che prima erano miei amici. Domani farò il riconoscimento delle salme, ora sono troppo stanco e potrei confondermi.

A casa, finalmente, mi infilo a letto e decido che questo è stato l’ultimo party, lo giuro. Dopo 10 minuti dormo, e ovviamente dopo 12 mi chiama mia madre che sa benissimo che io la domenica mattina mi sveglio prestissimo. E mi racconta gli avvenimenti degli ultimi 15 anni. Dopo aver commentato, non so bene come, e dopo aver deciso di cambiare numero di telefono ed indentità, mi riaddormento, con l’ansia…

Al mio risveglio, dopo un breve sonno tormentato da incubi a base di draghi a tre teste e amenità assortite, mi alzo, mi faccio un caffè e, con il pennarello rosso segno la data della prossima festa….

lunedì 19 novembre 2007

Vita da sportivo - Pallavolista anche io!

Alla costante ricerca di nuovi modi per farmi del male, sia fisico che psicologico, ero arrivato ad un punto morto.

Dal vecchio lavoro presso un’azienda aeronautica americana, che mi dispensava da quasi vent’anni una serie sterminata di umiliazioni quotidiane e che mi aveva ridotto sull’orlo dell’esaurimento nervoso, avevo trovato la forza di scappare, e mi ero sistemato in un posto nuovo, dove gli equilibri erano ribaltati ed ero io ad angariare i miei collaboratori con pretese orribili ed ingiustificate.

La palestra era sempre stata fonte sicura di dolore e avvilimento, dovuti sia all’età ormai avanzata che al fatto che anche i peggiori sfigati che passavano 10 mesi all’anno a chiacchierare accasciati su una panca o a sollevare pesi da paralitico, in breve tempo e grazie ad un aiuto chimico sostanzioso, quasi esplodevano sotto una massa muscolare spaventosa, facendomi apparire florido come un wurstel di pollo. Ma da quando uno dei più belli dell’intera palestra (e parlo di una palestra essenzialmente gay, non di una palestra di etero mezzecartucce) aveva incominciato a corteggiarmi in maniera sfacciata, proprio nel delicato momento dell’idratazione post-allenamento, quando davanti allo specchio mi rendevo conto che sulle mie maniglie dell’amore avrei potuto intervenire solo con la spada laser di Guerre Stellari, improvvisamente il fatto di non avere un fisico all’altezza non appagava più il mio innato masochismo.

Rimaneva la discoteca, regno incontrastato della più pura e sublime superficialità, dove il saper recitare a memoria la Divina Commedia in 4 lingue diverse non avrebbe impressionato nessuno, mentre avere dei bicipiti grossi come noci di cocco poteva crearti una schiera di ammiratori che neanche Brigitte Bardot nel 1962 avrebbe sognato. Tenendo conto del fatto che i miei bicipiti erano sordi ad ogni preghiera e, nonostante sollevassi pesi enormi per stimolare una loro minima reazione, non ottenevo risultato alcuno, come è facile immaginare la caccia in discoteca riservava delusioni su delusioni. Ad interrompere questo sereno tran-tran, dandomi più fiducia e cancellando in un momento anni e anni di serene mazzate al mio amor proprio, ci era voluta una scappata in una nota discoteca gay di Bruxelles dove mi ero ritrovato preda di perverse attenzioni di un paio di cubisti, cosa mai successa prima e che difficilmente succederà mai in futuro. Ma tant’era, l’incantesimo si era rotto, e le mie notti in discoteca non sarebbero state più le stesse.

Cosa rimaneva? Nulla, ahimè.

Anche il Torino era in serie A e con buone probabilità di restarci a lungo, per cui non si avvistava all’orizzonte alcunché che potesse aiutarmi a sentirmi, di nuovo, felicemente infelice.

Finché un giorno, complice il mio amico Davide, la soluzione a questo pernicioso benessere si era manifestata sotto l’aspetto giocoso e innocente di una delle discipline sportive più comuni e diffuse: la pallavolo.

Da gran tifoso quale sono, l’unica attività di squadra che avevo sempre considerato era il calcio, che avevo praticato in tempi remoti riscuotendo un discreto successo come difensore centrale, ruolo adatto alla mia stazza e alla mia scarsa dinamicità; tutti gli altri li consideravo poca cosa, e soprattutto la pallavolo la vedevo più come un’attività da oratorio delle suore che non un vero cimento adatto ad uomini duri e senza paura.

Il fatto che potessi non essere adatto alla pratica di detto sport non mi passava neanche per la testa, nonostante persone a me care cercassero in maniera delicata di farmelo capire: mia cognata, ex pallavolista, ricevuta la notizia aveva cercato di piallare il mio entusiasmo con un perentorio “ma tu non sai saltare” che io bellamente avevo ignorato, ormai completamente preso dal mio nuovo ruolo.

Recatomi all’allenamento per le matricole della Roman Volley, la pluridecorata squadra gay di Roma reduce dai trionfi europei della stagione precedente, ne ero rimasto completamente conquistato: era tutto facile, era tutto bellissimo, erano tutti gentili e molto disponibili ad aiutarmi. E poi non si trattava che di mandare la palla dall’altra parte della rete, mica di fare chilometri e chilometri di campo dietro ad un pallone, magari sotto la pioggia e nel fango con il rischio sempre in agguato di avere i legamenti tranciati da qualche avversario troppo zelante!

Certo, la rete mi sembrava esageratamente alta, ed io in effetti non ero in grado di saltare più di 10 centimetri, ma consideravo tutti questi come dettagli trascurabili, essendo convinto del fatto che l’unico problema doveva essere trovare delle mise per l’allenamento che valorizzassero la mia figura e che colpissero l’immaginazione: da bambino ero rimasto impressionato dal gonnellino di piume che Lea Pericoli aveva indossato a Wimbledon, causando uno scandalo quasi mondiale, per cui mi vedevo già come argomento di conversazione negli ambienti gay romani grazie ai miei arditi modellini fascianti, dai colori più improbabili e dalle fogge più estreme…

Poi, gli allenamenti erano incominciati sul serio.

E la punizione divina per la mia presunzione si era abbattuta di schianto su di me e sui miei completini da allenamento scelti con tanta cura.

La cruda realtà era, senza ombra di dubbio alcuno, che facevo veramente cagare.

La rete da alta che era di colpo era diventata una barriera insormontabile, per cui mi era praticamente impossibile mandare una palla dall’altra parte se non per caso e a costo di un paio di dita fratturate.

Gli allenatori, in precedenza così simpatici ed affabili, si erano tramutati in feroci aguzzini paranazisti, che mi sottoponevano a ogni tipo di umiliazione fisica e psicologica.

I miei compagni di allenamento erano solidali con la mia personale tragedia solo negli spogliatoi: appena si incominciavano a provare i colpi fondamentali, era un fuggi fuggi per evitare di capitare in coppia con me, vista la mia totale incapacità di mettere in fila due colpi in maniera accettabile. Nella partitella finale, poi, tutto peggiorava: venivo odiato dai miei sventurati compagni di squadra, o schernito dai miei momentanei avversari: il tentativo di “fare squadra” con allegre pacche sulle spalle e con espressioni di incoraggiamento naufragava tragicamente di fronte alla mia desolante inettitudine.

Il mio corpo si ammutinava: gli stessi muscoli cresciuti con fatica e anni di allenamento mi si ritorcevano contro, rivelandosi utili come un armadio a quattro ante durante il naufragio del Titanic.

E la stessa pallavolo si era trasformata da sport per signorinelle in un coacervo di schemi, posizioni in campo, ruoli, bande, martelli, fuori banda, opposti, centrali, zone e poi in una specie di guerra, con prime e seconde linee, alzatori, palleggiatori, difensori… Improvvisamente mi sentivo come un povero fante sul fronte occidentale durante la Grande Guerra: solo, abbandonato in una trincea fangosa piena di insidie mortali e contro un nemico implacabile.

Ma ormai, come il povero soldatino, ne sono dentro fino ai al collo, e non ne posso più uscire.

Quindi combatterò ogni giorno, e ogni giorno conquisterò quella sottile striscia di terreno che sicuramente, alla battaglia successiva, al successivo allenamento, perderò, conscio che, come per tutte le guerre, anche quella contro la pallavolo avrà una fine. E per vittorioso o sconfitto che sia, almeno una cosa buona in tutto questo ne verrà fuori: il mio masochismo, idolo placato, sarà finalmente soddisfatto.

giovedì 15 novembre 2007

Vita da Clubber - Il White Party (Seconda Parte)

Io, intanto, aspetto. Aspetto che qualche sfigato entri in pista, perché io non scendo MAI sulla pista tra i primi, non c’è niente di peggio: sarò anche in mezzo a un branco di finocchi arrazzati, con la dignità al minimo e depilato come una gallina ma di me non si potrà mai dire che ho aperto le danze come una debuttante!

Inganno l’attesa salutando altre persone, che mi ripresentano parte degli stessi che mi sono stati presentati poco prima e che si sono già, ovviamente, dimenticati di me nella maniera più assoluta.

Mentre innesto il mio tipico “sguardo da duro che scruta l’orizzonte” vengo avvicinato da qualcuno che non so assolutamente chi sia e che mi saluta come se avessimo fatto tutta la scuola dell’obbligo assieme: per non ferirlo inutilmente, reggo il gioco, e chiedo come va il lavoro e come va la vita. Siamo a Milano, del resto, e un lavoro ce l’hanno tutti. Una vita, proprio perché siamo a Milano, magari no, ma non posso sottilizzare... Alla terza persona sconosciuta che mi saluta con aria di losca complicità capisco che la mia fama mi precede pericolosamente e medito un definitivo ritiro dalla scena gay. O almeno dalle chat.

Ricompaiono i miei amici, allegri e sudati come maiali pur non avendo ancora messo piede sulla pista: non indago sull’origine di tanta allegria, un uomo sa quando è meglio chiudere un occhio, ma incomincio a temere per il proseguimento della serata.

La pista è praticamente piena, per cui preferisco dimenticare quello che ho appena visto e, seguito dai miei amici, mi porto al centro delle danze. Nel giro di pochi secondi rimango tragicamente solo, visto che c'è un mare orrendo di gente ed i miei compagni di ventura si perdono immediatamente: desisto dal cercarli, già è difficile trovare qualcuno in un posto normale, ma se si tiene conto del fatto che i miei amici appartengono quasi tutti alla categoria basso-muscolo-rasato, e la clientela della serata è composta per il 90% di bassi-muscoli-rasati perdipiù TUTTI vestiti di bianco, ritrovarli diventa un’impresa praticamente impossibile...
In pista se la tirano tutti in maniera orribile, per cui devo stare attento a non sfiorare nessuno, neanche incidentalmente, se non voglio essere fulminato da sguardi di brace come se fossi una specie di appestato. Incomincio a muovermi a ritmo, con scioltezza ma in realtà controllo la folla ed aspetto che qualcuno si tolga la maglietta: al primo, forse secondo torso nudo intravisto, me la tolgo anche io (altra regola: MAI togliersela per primi, ci sono dei duri precetti da seguire, ragazzi!) e finalmente la serata entra nel vivo!

L’ambiente circostante, complice l’ennesimo arrivo di qualche carico di droghe provenienti da ogni parte del mondo, inizia ad assumere dei contorni più rassicuranti. Su facce poco prima incazzatissime col mondo incominciano ad apparire i primi sorrisi, magari un po’ vacui ma non si va troppo per il sottile qui.
Saremo pure ad un White Party, ma non ci si deve mai dimenticare che la pista di un club gay non è che un luccicante mercato delle vacche, per cui va bene la musica, van bene le droghe, va bene pure far finta di essere li solo per ballare, ma alla fine l’istinto del predatore prende il sopravvento. E scatta l’ora della caccia: individuo uno che mi piace, che non sia una faccia conosciuta, che non abbia voglia di spararmi per qualche porcata che gli ho fatto in passato (siamo tutti un grande famiglia, noi gay), e che sia un minimo lucido e lo punto di brutto.
Se ci sta, bene, se no passo a puntare un altro (nel frattempo respingo l'offerta di almeno 8 tipi di stupefacenti conosciuti e di almeno altri 4 che non conosco) e così via finché non trovo qualcuno che ci stia, quindi ci ballo assieme, mi ci struscio come una go-go dancer e, dopo me lo sbaciucchio un po’. Ovviamente con il procedere della serata, tutto questo assume delle caratteristiche sempre più hard, e il semplice ballo diventa uno spettacolo di Cicciolina e Ramba, lo strusciamento una specie di amplesso in pista e lo sbaciucchiamento un esame endoscopico della faringe…
Il problema è che mantenere delle relazioni durature e stabili in certe situazioni risulta molto complesso, per cui passata la prima grande ondata di passione, non si vede l’ora di abbandonare la recente conquista per sperimentare qualcosa di nuovo, e magari di più muscoloso. Per cui adotto la tattica del risucchio: che non è assolutamente quello che state pensando tutti quanti (schifosi) ma una strategia particolare che consta nel farsi risucchiare dalla folla e lasciare la recente conquista per potersi dedicare in santa pace a qualcuno di più interessante.
Siamo cacciatori, no? È la caccia in se che ci interessa, ed una volta che siamo stati virtualmente fotografati con il piede sulla testa della vittima, questa perde immediatamente di interesse e noi siamo pronti per nuove fantastiche avventure…

(Continua.....)

mercoledì 14 novembre 2007

Vita Quotidiana - Dio benedica l'Argentina!

Lo sospettavo da parecchi anni, ma in passato era solo un’idea latente, che affiorava durante qualche notte insonne e particolarmente agitata, o magari in qualche lungo viaggio noioso, senza libri e senza Ipod, quando non ti resta che utilizzare i pochi neuroni sopravvissuti alle notti in discoteca per ingannare il tempo che sembra non passare mai.

Io con l’Italia non c’entro un benemerito cacchio.

Io sono un esule. E per la precisione un esule argentino. Un figlio della Pampa non si sa perché depositato da qualche cicogna cretina nelle terre sabaude anziché nelle lande sterminate dell’altra parte del mondo. Avrei dovuto crescere libero nei pascoli, passare la mia infanzia e la mia adolescenza a ritmo di tango, avere come vicino di casa un gentile vecchietto ex criminale nazista, avrei dovuto diventare un campione di calcio…

Invece no, sono nato qui, nella città più vecchia e decrepita di una nazione vecchia e decrepita di un continente vecchio e decrepito.

Il sospetto che il mio destino avrebbe dovuto essere diverso ha radici lontane, ma ora è diventato una certezza. E questa certezza ha 3 nomi, nomi di donna.

Evita, Isabelita e Cristina.
Il Mito, la Mediocrità, Il Camp.

Da bambino grasso quale ero, che sgomitava per trovare il senso della sua presenza sulla Terra, la mia curiosità malata mi faceva trovare appassionanti tutte quelle cose che i miei coetanei, anche quelli più disfunzionali, trovavano vomitevoli: una di queste è stata per un certo periodo Evita Peron.
Complice il successo planetario del musical a Lei dedicato (che ancora ora mi fregio di sapere interamente a memoria, cori compresi) ne ero rimasto totalmente affascinato.
Con gli scarsi mezzi dell’epoca avevo cercato di capire chi fosse, da dove venisse e perché, nonostante non avesse mai recitato in un film o cantato canzoni di successo, fosse ancora una figura così brillante e presente nelle cronache storiche. Incidentalmente, poi, una mia vecchia zia che narrava spesso di lontani parenti emigrati in Argentina, mi regalò un volume a Lei dedicato: commemorava l’inaugurazione, avvenuta credo nel 1950, di una scuola elementare sperduta nella Pampa, riccamente decorata con foto di Evita elargente pacchi di masserizie alla folla adorante, composta per lo più da donne e bambini della mia età. Una lettura per me semplicemente travolgente, anzi, di più, un vero segno del destino.
La mia follia per Evita, a quel punto, esplose in tutta la sua virulenza, e come preso da un sacro fuoco cercai tutto il possibile su di lei. Leggevo cose illeggibili, soprattutto per un bambino da poco in età scolare, collezionavo foto (Internet, all’epoca, era troppo anche per i telefilm di Spazio 1999…), battevo a tappeto tutte le biblioteche a portata di autobus da casa mia, spaccavo le palle a mia madre perché mi raccontasse cosa sapesse di lei, ma mia madre, da CCC (Casalinga Comunista Combattente) quale è sempre stata si rifiutava di parlarne (c’era la dittatura fascista in Argentina, e assieme al Cile era considerata il Regno del Male).
Per un breve ma intenso periodo la mia attenzione di bambino rimase focalizzata tutta su di Lei. Poi, piano piano, complice la lontananza fisica del paese d’origine, il totale disinteresse famigliare e il rischio di perdere tutti i miei amichetti che volevano sentire parlare di Heidi e Goldrake e non di una vecchia ormai morta e completamente dimenticata, la mia passione scemò.
Ed entrò in letargo.

Molti anni dopo, ormai all’alba dei miei 30 anni, la passione per l’Argentina riaffiorò, quasi per caso, dopo aver visto in televisione “Missing”, un vecchio film di Costa-Gavras. Nonostante il mio cuore di pietra, ne fui parecchio colpito: cominciai quindi a raccogliere informazioni in ordine sparso, a leggere qualche cosa sulla dittatura, sulle Madri di Plaza de Mayo, sui desaparecidos in generale e a cercare di capire cosa fosse successo, e soprattutto perché.
Poi, all’improvviso, nel mare magno delle cose lette, viste ed orecchiate mi si presentò una figura di una tale mediocrità e di una tale inutilità che ne fui immediatamente conquistato: Isabelita Peron. Nella mia crassa ignoranza ero sempre stato certo del fatto che Isabelita fosse una figlia, o una cugina, o una parente inutile di Peron: ora scoprivo che era sua moglie. E anche di più, che era stata ballerina di un gruppo folkloristico! E non solo! Che,per malevolenza del caso, era stata anche la prima donna prima vice poi presidente dell’Argentina! Certo, in seguito alla morte del marito, ma ancora meglio: l’esempio perfetto della persona sbagliata, nel momento sbagliato, al posto sbagliato.
Tutto quello che mi sono sempre sentito nella mia vita.
Se poi si aggiungeva il fatto che fosse cotonata come una pazza e indossasse improbabili vestiti fiorati che non si erano mai visti prima, beh, ragazzi, il gioco era fatto!
Per un breve periodo, quindi, la mia icona diventò l’orrenda Isabelita. Certo, cercare materiale su Evita era un gioco da ragazzi persino vent’anni prima, e ora era più facile che mai, ma su Isabelita era un lavoro improbo: mia madre, la mia memoria storica, non aveva nessuna intenzione di aiutarmi e quando gliene parlai mi definì semplicemente “Cretino” (nonostante io cercassi di mimetizzare la mia passione con una seria necessità di capire la dittatura argentina).
Un viaggio a Buenos Aires, fortemente desiderato e finalmente compiuto, segnò il definitivo declino della mia passione per la povera ballerina. Neanche laggiù, infatti, nessuno ne voleva parlare.

E arriviamo ad oggi. Uomo fatto, senza più timori di sorta, con una vita piena, che è stato capace di cambiare il proprio corpo con fatica e dedizione, e di lasciare, alle soglie dei quarant’anni , un lavoro che dopo decenni non lo soddisfaceva più e una città, la sua città, che ormai gli stava stretta come una pancera. Che si riteneva ormai realizzato, senza più paura del futuro e con tante certezze nella sua piccola borsa da viaggio…

E improvvisamente cosa succede? Cosa mi combina di nuovo l’Argentina?

Va alle urne, e tanto per gradire mi elegge come presidente una donna. Ma non una donna qualsiasi, a quello ci avevano pensato un sacco di altri paesi più evoluti del nostro, tipo la Liberia, ma una come Cristina Kirchner.
Una donna sempre pettinatissima, vestitissima, truccatissima. Una donna capace di far aspettare i manifestanti che protestano sotto la Casa Rosada solo perché non ha finito di truccarsi ma che ha costretto il marito, Nestor Kirchner, presidente prima di lei, a varare leggi contro i responsabili dei crimini durante il periodo della dittatura.
Una donna che non nasconde un uso estensivo del botulino (non potrebbe, del resto, neanche volendo…) e del chirurgo plastico, vanitosa ed egocentrica ma che se sei etero o gay non le frega nulla, Lei rispetta tutti e vaffanculo!
Una donna che si è arricchita con il suo lavoro, ma che durante la dittatura ha abbandonato la vita politica, rifiutato di mischiarsi con il Tiranno e che è di sinistra e non ha paura a proclamarsi tale. Una donna vera. Una donna totale. Un’icona gay. L’unica donna che vorrei essere se fossi donna.
Ed il mio piccolo mondo di certezze crolla: capisco improvvisamente che non sono italiano per niente. Che con questo paese non c’entro più nulla.

Sono Argentino, cacchio.

E se becco la cicogna che ha sbagliato sono cazzi suoi.

martedì 13 novembre 2007

Vita da Clubber - Il White Party (Prima Parte)


Nella vita di molti gay in buona salute, ci sono degli eventi che ricoprono un rilievo fondamentale, e che hanno scalzato in gerarchia anche le allegre festività pagane tipo Natale o Pasqua: le feste in discoteca.

Avendo finalmente gettato alle ortiche un passato da persona seria e posata, dedita al lavoro, alle letture e alla famiglia (allargata o meno), ed essendo finalmente diventato quello che avevo sempre desiderato, cioè una specie di cretino che al solo pensiero di una serata in discoteca si spoglia, suda e si agita quando ancora è in bagno intento a depilarsi le ascelle e mancano 4 ore all’apertura, i party dei club hanno acquisito un importanza angolare nella mia esistenza.

Ora, essendo il panorama italiano piuttosto scadente, se paragonato alle feste gay nei club delle grandi capitali europee, e visto che per motivi di bilancio non posso andare oltreconfine ogni week end, tocca attaccarsi a quello che c’è. Per cui le date delle feste più importanti le segno sul calendario con il pennarello rosso, a volte anche con mesi e mesi di anticipo, e sopravvivo tra una serata e l’altra in attesa che l’Evento finalmente si compia.

Uno di questi Eventi epocali è il White Party, in una nota discoteca gay di Milano.

Il fatto che tutti i White Party, poi, siano esattamente uguali a quelli che precedono e a quelli che seguiranno, è poco importante (quando mi fa comodo posso avere una memoria che un pesce rosso pare Pico della Mirandola): quello che conta è che per una volta mi sento autorizzato a dare al cervello un serata libera, come alla colf.

La preparazione è lunga e accurata, e vi risparmio quelli che sono i dettagli più intimi e meno interessanti (devo depilarmi anche le gambe? Mutanda o libertà assoluta? Mi devo idratare con l’olio in modo da poterlo comodamente sudare più tardi sulla pista ed acquisire quindi un fantastico luccicore da pollo imburrato?) per cui di solito, preso dall’ansia, incomincio dalla scelta di una mise adatta.

Nonostante il bello delle feste monocolore sia che non devi scervellarti per scegliere il capo giusto, qualcun altro ci ha già pensato per te, la scelta della maglietta da indossare è la parte più difficile: il fatto che non serva assolutamente a nulla perché dopo pochi minuti sarò comunque mezzo nudo non è rilevante, come diceva Jackie Kennedy si è eleganti perché lo si è, non per esibirsi. Dopo attenta analisi del mio guardaroba trovo la maglietta giusta per la serata: bianca. Essendo un White Party non è una scelta particolarmente coraggiosa, ma tant’è…

Tranquillizzato dal fatto che anche stasera ho trovato cosa mettermi, mi concedo un sonno di bellezza, e magari anche una maschera rilassante che mi aiuta ad abbattere ogni barlume di dignità residuo.

A quel punto la regressione è quasi completa, per cui al mio risveglio, e dopo essermi messo non la maglietta bianca che avevo scelto ma una che ritengo più adatta (assolutamente uguale all’altra) mi reco sul posto con la mia solita compagine di amici. Durante il tragitto per arrivare alla discoteca mi esibisco nel solito pippone sul pericolo dell’abuso di droga e sul fatto che poi dovrò essere io a raccogliere i cadaveri e ad avvisare eventualmente le famiglie del loro decesso: ovviamente non serve a nulla, visto che ormai vengo ascoltato come un testimone di Geova che la mattina del lunedì, andando al lavoro, ti ferma per annunciarti l’apocalisse tra 15 giorni.

Si entra in discoteca praticamente subito dopo cena, per evitare la coda selvaggia che si formerà fatalmente più tardi: tutte le volte mi pento immediatamente di essere arrivato così presto, perché finocchi ce ne sono pochissimi, e quelli che ci sono appartengono alla specie “Neanche ai Saldi”, ma in compenso ci sono ancora le donne delle pulizie che stanno lavando il pavimento e che ci guardano con malcelato disprezzo.

Saluto le persone che conosco (come me, mezza Italia converge sulle stesse feste e ci si vede solo li, fuori si avrebbe troppa vergogna a frequentarsi), e per salutare tutti ci vuole almeno un'ora e mezza, e per un'ora e mezza dico le stesse cose e mi vengono chieste le stesse cose. E di solito vengo chiamato con almeno 6 nomi differenti (Francesco ed Alessandro i più gettonati). Tra un saluto e l’altro, mi vengono presentate almeno 20 persone che mi sono già state presentate ripetutamente ad altri 4 White Party e che a occhio non si ricordano di me e non hanno nessuna intenzione di ricordarsene la prossima volta.

Scatta l’ora degli acquisti di “materiale ricreativo” (la droga insomma!), ed i miei amici spariscono immediatamente. Chi si è già portato avanti con la spesa passa direttamente al consumo, per cui i bagni si riempiono di allegre comitive urlanti: la sacra privacy dei WC va a farsi benedire, ed in ogni toilette entrano almeno 15 persone, che dopo qualche minuto escono visibilmente riappacificate con se stesse e col mondo intero.

(Continua.....)

lunedì 12 novembre 2007

Vita con l'ex - La gita a Sant'Anna

Non avevo mai sentito parlare di Stazzema, e per quel che ne sapevo poteva essere meno interessante di Busto Arsizio, ma il fatto che Massimiliano, il mio fidanzato storico, per cui anche solo la passeggiata Marina di Pietrasanta - Forte dei Marmi (10 minuti) era un viaggio siderale da farsi durante le eclissi di sole o il passaggio di comete, dopo un attento esame dei pro e dei contro (e magari alla fine di una serie di trattative dalle quali io uscivo frantumato), mi stesse proponendo una gita a visitare il sacrario di Sant’Anna mi aveva talmente sorpreso che avevo accettato immediatamente, con lo stesso entusiasmo di un bambino a cui era stata proposta una gita a Disneyland.

Conoscendo i gusti di Massimiliano, durante il breve tragitto fra la nostra casa di Viareggio ed il piccolo paese delle Apuane, ero convinto di essere diretto in un posto di gran bellezza naturale, di boschi e corsi d’acqua, dove mangiare un panino sul prato e guardare gli animali selvaggi pascolare sereni attorno a noi… Un posto di una noia pazzesca insomma, di quelli che mi generano un’ansia orrenda e che non mi fanno vedere l’ora di tornare in città, in mezzo alle esalazioni di ossido di carbonio e al traffico congestionato. Con il poco preavviso che mi era stato dato, avevo cercato qualche informazione che giustificasse l’entusiasmo del mio compagno, ma, in tempi in cui internet era ancora affare di pochi, avevo avuto scarso successo. Certo, avevo trovato qualche accenno a crimini di guerra nazifascisti, ad una medaglia d’oro al valore militare e poco altro, ma visto che per me massacro nazifascista equivaleva a Marzabotto, credevo che il tutto nascondesse una trovata turistica e poco altro.

Quando finalmente arrivammo, nonostante la mia proverbiale mancanza di sensibilità e la spocchia di chi la resistenza ce l’aveva nel sangue (nonna delle langhe, mica merda…), immediatamente mi resi conto che qualche cosa non quadrava.

Intendiamoci, il posto era il solito insieme di borghi, senza particolari caratteristiche che lo differenziassero da altri luoghi simili, con la strada che saliva in mezzo ai boschi e le chiesette e le case di pietra e gli sterrati e tutto il bric-à-brac dei paesini di montagna che mi ha sempre fatto orrore…

Era il clima che era diverso.

A differenza dei posti feriti dalle guerre che avevo visitato, che conservavano i loro ricordi assieme alla targa commemorativa del passaggio di Garibaldi e alla fontana in ricordo dei caduti, a Sant’Anna c’era poco di commemorativo.

C’era ancora la guerra. Certo, non si sentivano più gli spari, di tedeschi in camionetta neanche l’ombra (gli unici presenti erano in bermuda e sandali e non avevano nulla di sinistro), non aleggiavano nell’aria i suoni e gli odori tipici delle battaglie: non c’era nulla, insomma, che rimandasse agli stereotipi della Seconda Guerra Mondiale. Anzi, non c’era neanche quella Guerra, o per lo meno non c’era solo quella.

C’erano tutte, le guerre. Quelle lontane, quelle dimenticate e quelle ancora in corso, magari in zone del mondo dove già vivere in pace può essere un casino, immaginiamo viverci durante una guerra..

C’era il dolore, in modo così forte che gli scambi di parole fra me e Massimiliano, solitamente già parecchio scarni, di colpo erano svaniti del tutto, per lasciare spazio ad un silenzio nervoso, allo sbigottimento e alla voglia, quasi alla necessità, di andarsene al più presto, per tornare a non sapere.

C’era l’odio. Ma quello sordo, così banale ed inutile che si faceva fatica ad immaginare: l’odio verso un avversario talmente idealizzato che i suoi contorni erano ormai confusi, tanto da essere riconosciuti in un bambino, in una donna incinta, in un vecchio…

C’era il sonno della ragione, che aveva generato dei mostri tali che senza essermene reso conto mi avevano portato a Srebenica. In Rwanda. A Mylai. E mi avevano fatto diventare ebreo, armeno, tutsi…

Non ci fermammo molto. Io non resistevo oltre e anche Massimiliano era visibilmente provato, tanto che, come alla fine di un funerale di una persona cara quando ormai tutto è finito e non rimane che il ricordo, senza un cenno e senza dirci nulla ci dirigemmo di nuovo a grandi passi verso il parcheggio e poi giù, sulla strada che ci avrebbe portato verso la costa, verso la nostra casa e verso la nostra vita quotidiana, in luoghi che di tanto odio e tanto orrore, fortunatamente, o purtroppo, non c’era più traccia.

giovedì 8 novembre 2007

Incominciamo...

Bene.
Nel processo di banalizzazione della mia esistenza, dopo la palestra, i tatuaggi da scaricatore di porto (magari...), le mutande di AussieBum, una sequenza di ex fidanzati che Zsa Zsa Gabor era una dilettante, l'ultimo disco di Madonna (no, non è vero, quello non ce l'ho e Madonna mi fa veramente cagare...) e tutta una serie di varie amenità, credo che il fatto di avere un blog personale sia un passo assoltamente da non mancare.

Quindi, ci proviamo.

Cosa ci sarà dentro? Ancora non è ben chiaro neanche a me.

Posso incominciare dall'elencare (perchè una cosa è certa, questo blog sarà pieno di elenchi, e non me ne voglia il buon Nick Hornby..) alcune delle cose che ci troverete e quelle che non ci saranno mai, con la libertà di potermi contraddire in ogni momento...

Per cui:

Non ci saranno molti etero (la maggior parte è noiosa come la merda sotto le scarpe con la suola a carrarmato) ma ci saranno un sacco di finocchi di ogni genere, forma e aspetto...

Non ci sarà Madonna, in ogni sua forma e dimensione e manifestazione, ma ci sarà la Madonna, di cui sono devotissimo anche se solo per puro onanismo iconografico...

Non ci saranno uomini nudi e muscoli e pettorali e bicipiti al vento, ma ci saranno un sacco di vecchie cotonate e vestite in modi improbabili, perchè alla fin fine siamo tutti figli di Lana Turner...

Non ci saranno Prada, Gucci, D&G, e tutto l'ambaradan da frociadimoda, ma ci sarà la principessa Galitzine come se piovesse...

Non ci sarà la Callas (due coglioni ci ha fatto anche da morta!) ma ci sarà la Tebaldi, e non solo lei...

Non ci sarà Maria de Filippi (a meno che non la prenda sotto un tram e quindi si possa festeggiare tutti assieme) ma ci sarà Janira Maiello (perchè la vita senza di lei non avrebbe senso)...

Non ci sarà, spero, nulla di politicamente corretto, ma un sacco di cose scorrette. Anche grammaticalmente...

Non ci sarà Beppe Grillo (perchè di tribuni del popolo miliardari che ci fanno la predica e pensano di risolvere i problemi del mondo con un pannello solare ne ho piene le tasche) ma ci sarà un sacco di politica, almeno per quanto riguarda le cose di cui ci capisco qualcosa, per il resto meglio tacere...

Non ci saranno Jennifer, Christina, Gwen, Beyoncè e compagnia cantante (cantante? beh, non esageriamo...) ma ci sarà un sacco di Rosina. Inteso come Alessandro, che Dio lo benedica sempre ed in eterno. E che ci regali un sacco di soddisfazioni che ne abbiamo bisogno...

Non ci sarà la juve (a meno di sue clamorose disfatte), perchè puzza anche via internet, ma ci sarà tanto tanto Toro, che fa bene alla salute anche quando perde 6 a zero...

Non ci saranno cose amichevoli e rassicuranti, ma ci saranno tanti amici. Nuovi e vecchi. Tutti importanti...

Insomma...

Non ci saranno un sacco di cose che ti aspetti. Ma un sacco di altre che mai più avresti pensato.

O almeno lo spero.

PS: L'intero Blog è dedicato a Tonino, senza il quale la vita sarebbe un sacco più tranquilla. Ma un sacchissimo più noiosa...